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Il terapeuta con vissuti traumatici e il supporto ai pazienti

Il terapeuta con vissuti traumatici e il supporto ai pazienti

di Giuseppe De Santis - 22/07/2024 Contenuto revisionato dalla redazione clinica
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Il terapeuta con vissuti traumatici e il supporto ai pazienti

Nell'immaginario comune, il terapeuta è spesso visto come una figura dotata di estrema resilienza. Anche il professionista, però, può portare con sé vissuti traumatici che possono avere un'influenza sulla relazione terapeutica con i pazienti che, a loro volta, hanno vissuto un trauma.


Abbiamo affrontato il tema con lo psicologo e psicoterapeuta Unobravo Giuseppe De Santis, che ci guiderà attraverso le complessità di questa dinamica offrendo spunti di riflessione basati sulla propria esperienza clinica.


Definire il trauma


Nell’accezione comune, il trauma può essere differenziato in due grandi categorie (Sbattella, 2009).


Con trauma massiccio ci si riferisce a un singolo evento traumatico eclatante come incidenti stradali, incendi, calamità naturali, lutti improvvisi, malattie oncologiche, omicidi o suicidi. La caratteristica principale di tali eventi è quella di essere percepiti dal soggetto come una grave minaccia alla propria vita o all'incolumità fisica e psicologica. 


Esiste poi il trauma relazionale, ovvero ripetute, prolungate e precoci esperienze dolorose come maltrattamenti durante l’infanzia, abusi, esperienze di rifiuto, separazione e umiliazione, sentimenti di abbandono, bisogni emotivi e fisici non soddisfatti, assenza di disponibilità genitoriale e di protezione.


La conseguenza di vissuti di questo calibro genera una “frattura” emotiva nella persona che si trova ad affrontarli, al punto da minare il senso di stabilità, sicurezza e di identità e da alterare e compromettere il benessere psico-fisico e sociale (Herman, 1992).


Il trauma del terapeuta e la relazione con il paziente


Indipendentemente dalle differenze che possono esserci tra i vari vissuti traumatici, possiamo individuare alcune reazioni emotive comuni (DSM-5, 2013) alle diverse esperienze:


  • sensazione costante di allarme e iper-attivazione del sistema neuro-fisiologico di difesa
  • sentimenti di rabbia, colpa e vergogna
  • umore depresso o irritabile
  • somatizzazioni massicce
  • eccessiva sensibilità interpersonale
  • chiusura e distacco sociale. 

Nel corso della relazione con il paziente, potrebbe capitare al terapeuta di rivivere le proprie memorie traumatiche: i trigger potrebbero essere l’ascoltare il racconto di stati mentali di impotenza e terrore, oppure l’eccessivo coinvolgimento relazionale. Il rischio è di rimanere impantanati tra i nostri pensieri, le nostre emozioni e gli stati somatici sgradevoli, ritirarci dal dialogo terapeutico o evitare attivamente di parlare del trauma (Van der Hart et al., 2011).


RDNE Stock project - Pexels

In questo caso, la potenziale problematica sarebbe quella di rimandare al paziente, attraverso una self-disclosure involontaria veicolata dal nostro comportamento non verbale e da un atteggiamento di chiusura, l’idea che quel vissuto sia un tabù, che non possa essere accolto ed elaborato, perché risulta troppo doloroso da affrontare persino per noi (Van der Kolk, 2015).  


Vivere lo stesso trauma del paziente: rischi e opportunità


I traumi vissuti dal terapeuta possono influenzare la relazione con il paziente che ha vissuto lo stesso trauma. Infatti, all’interno della relazione terapeutica, entrambi i partecipanti contribuiscono a costruire il setting mettendo in campo la propria identità, le esperienze e la propria storia di vita (Semerari, 2022).


Il clinico che non ha precedentemente fatto i conti con le proprie esperienze traumatiche corre il rischio di agire in maniera anti-terapeutica. Per esempio, potrebbe:


  • assumere un assetto relazionale eccessivamente accudente e protettivo, ai limiti dell’invadenza dei confini e dell’invischiamento
  • mostrarsi eccessivamente intrusivo e ossessivo nell’esplorazione dettagliata delle memorie traumatiche
  • evitare di parlare del trauma entrando in una modalità di distacco emotivo dagli stati interni, per allontanarsi dal dolore esperito.

A volte, però, l’aver vissuto lo stesso trauma aiuta ed è un valore aggiunto alla terapia, perché permette di empatizzare profondamente con il paziente, comprenderne perfettamente il racconto, dare spunti di riflessione e di gestione utili per costruire un dialogo finalizzato alla regolazione del malessere, alla guarigione e al cambiamento di sé. 


Il lavoro clinico con i vissuti traumatici


Trovo utile, in questo contesto, introdurre brevemente il concetto di trauma vicario, chiamato anche trauma indiretto o secondario (Argentero et al., 2016).


Per chi esercita una professione di aiuto e si trova a svolgere attività anche con soggetti traumatizzati, come noi psicologi e psicoterapeuti, il rapporto empatico, l’impegno richiesto e la responsabilità percepita possono causare una compromissione della nostra salute a ogni livello.


Ascoltando nel dettaglio le esperienze traumatiche che ci vengono riferite, diventiamo noi stessi agenti attivi delle realtà traumatiche dei pazienti e questa esposizione può, alla lunga, modificare i nostri schemi cognitivi, la percezione che abbiamo di noi stessi, degli altri e del mondo circostante. Tali modificazioni possono avere effetti negativi sia sulla vita personale che su quella professionale. Nonostante il nostro lavoro ci esponga ai traumi “solo” indirettamente, il pericolo è quello di poter sviluppare una sintomatologia riscontrabile in un quadro clinico classico di disturbo da stress post-traumatico (Cummings et al., 2019).


Per una lettura più approfondita sull’argomento, in particolare in riferimento al burnout dello psicologo, consiglio il libro Burnout: the cost of caring, scritto dalla psicologa Christina Maslach nel 1982.


Le emozioni del terapeuta al racconto del trauma


Riprendendo il costrutto di trauma vicario, il terapeuta con vissuti traumatici non elaborati è esposto a diverse conseguenze. Prima, durante o dopo una seduta, il terapeuta può provare un incremento della percezione di vulnerabilità e di fragilità, accompagnata da sentimenti di impotenza e di inadeguatezza per non riuscire a essere per il paziente una base sicura nei confronti della sua sofferenza e del malessere provato (Smith et al., 2007).


Alex Green - Pexels

Inoltre, il terapeuta può sentirsi sopraffatto dai racconti del paziente, provare paura e dolore o, addirittura, sentirsi in colpa per aver in qualche modo scoperchiato il vaso di Pandora (Hellman et al., 1987).


Questi sentimenti possono facilitare degli agiti poco appropriati che interferiscono con il percorso di cura. A titolo esemplificativo, il terapeuta potrebbe provare rabbia qualora il paziente avesse poca compliance al trattamento, potrebbe dubitare delle proprie capacità e conoscenze terapeutiche. Le emozioni intense, se non adeguatamente modulate, potrebbero indurlo a compiere azioni errate e non sufficientemente ragionate (Liotti & Farina, 2011).


Strategie di coping per psicologi e psicoterapeuti con vissuti traumatici


Per svolgere al meglio il proprio lavoro di cura, ogni terapeuta dovrebbe praticare un lavoro incessante di disciplina interiore, per evitare di ritrovarsi in cicli interpersonali problematici con i pazienti e mettere in pratica una buona regolazione emotiva in seduta (Dimaggio et al., 2013).


La disciplina interiore è una predisposizione mentale del terapeuta, un insieme di strategie di coping nei confronti di vissuti emotivi spiacevoli che si attivano in noi clinici in risposta a un contenuto proveniente dal paziente, che tocca delle corde per noi sensibili, e che quindi vanno gestiti tempestivamente (Safran & Segal, 1990).


Nel caso specifico degli eventi traumatici, i racconti dei pazienti possono indurci diverse sensazioni intense, per esempio angoscia, imbarazzo, collera. Tramite il monitoraggio dei propri stati interni, spesso ci si accorge che sotto le emozioni più superficiali si nasconde un vissuto secondario imponente: il rischio o il timore di non essere un terapeuta adeguato e capace, associato a delusione e tristezza. Pertanto, diventa essenziale saper riconoscere cosa sta accadendo all’interno della nostra mente. 


Comprendere questo meccanismo e associarlo alle proprie credenze e alle proprie paure è il primo passo per poter regolare e gestire questa mole emotiva nel qui e ora della seduta, per potersi dire che quel timore è solo un’ipotesi, una possibilità, un’auto-valutazione, ma non è necessariamente la verità assoluta.


L'importanza di prendersi cura di se stessi


È sicuramente essenziale, per un professionista della salute mentale, costruire e mantenere un’ampia rete di colleghi di riferimento per avere accesso a incontri costanti di supervisione e intervisione, sia per ridurre la sensazione di isolamento, sia per aumentare l’obiettività nei confronti dei pazienti presi in carico e per quelli futuri.


Inoltre, possedere un’adeguata formazione in psico-traumatologia risulta importante per apprendere gli strumenti principali non solo per intervenire efficacemente sul trauma, ma anche per ridurre l’impatto del trauma vicario.


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Importante è anche mantenere un buon equilibrio tra vita privata e vita professionale, preservare i propri spazi di piacere, riposo e svago, mantenere attiva la propria sfera amicale e familiare, coltivare quotidianamente interessi e passioni non strettamente legati alla psicologia (Lazarus & Folkman, 1984).


Infine, chiunque eserciti la psicoterapia o qualsiasi altra relazione di cura dovrebbe impegnarsi per preservare un solido senso di identità personale, che prescinda dall’esercizio della professione.


Pratica clinica e spunti di riflessione


Personalmente, nel lavoro clinico, chiarisco ai pazienti con vissuto traumatico che la terapia può finire, ma che la relazione non finisce mai. In sede di conclusione del trattamento, sono solito far presente la necessità di continuare a vedersi per delle sedute di follow-up, anche solo due volte all’anno, in modo tale da esplorare come il vivere con una mente più aperta, consapevole e riflessiva influenzi la vita quotidiana e le relazioni (Liotti, 2005). 


Ritengo questa tipologia di monitoraggio meno fredda e distaccata, più simile a una relazione alla quale tutti siamo abituati. Con il paziente post-traumatico, l’idea che la fine della terapia sancisca anche la fine della relazione rischia di confermare alcune credenze che si formano quando si vive in una ambiente maltrattante e che possono essere applicate anche nei confronti del terapeuta: “sono di peso”, “sono una seccatura”, “la vita degli altri sarebbe migliore se io non ci fossi”, “il mio terapeuta è contento di essersi finalmente liberato di me” (Liotti & Monticelli, 2008).


È molto facile dimostrare al paziente che non è così, non solo a parole ma anche nei fatti, grazie a una relazione terapeutica che non si esaurisce necessariamente alla fine della terapia.


BIBLIOGRAFIA


  • American Psychiatric Association, 2013, Diagnostic and statistical manual of mental disorders: DSM-5., American Psychiatric Association, Washington D.C
  • Argentero P., Cortese C.G., 2016, Psicologia del lavoro, Raffello Cortina Editore, Milano
  • Cummings C., et al., 2019, Coping and Work-Related Stress Reactions in Protective Services Workers, in The British Journal of Social Work, vol. 50, pp. 62-80
  • Dimaggio G., et al., 2013, Terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità, Raffaello Cortina Editore, Milano
  • Hellman I.D., et al., 1987, Therapist experience and the stresses of psychotherapeutic work, in Psychotherapy: Theory, Research, Practice, Training, Vol.24:171-177
  • Herman J. L., 1992, Guarire dal trauma. Affrontare le conseguenze della violenza, dall'abuso domestico al terrorismo, Trad. It. Traduzioni Scientifiche MaGi, Roma
  • Lazarus R. S., Folkman S., 1984, Stress, appraisal, and coping, Springer publishing company, New York
  • Liotti G., 2005, La dimensione interpersonale della Coscienza, Carocci Editore, Roma
  • Liotti G., Farina B., 2011, Sviluppi Traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa, Cortina Editore, Milano
  • Liotti G., Monticelli F., 2014, Teoria e clinica dell’alleanza terapeutica: la prospettiva cognitivo-evoluzionista, Raffaello Cortina Editore, Milano
  • Maslach C., 1982, Burnout, the cost of caring, Englewood Cliffs, N.J.: Prentice-Hall
  • Safran J.D., Segal V.Z., 1990, Il processo interpersonale nella terapia cognitiva, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano
  • Sbattella F., 2009, Manuale di psicologia dell’emergenza, Franco Angeli, Milano
  • Semerari A., 2022, La relazione terapeutica. Storia, teoria e problemi, Editori Laterza, Roma-Bari
  • Smith A.J.M., et al., 2007, How therapists cope with clients’ traumatic experiences, in Torture, Vol. 17:203-215
  • Van der Hart O., et al., 2011, Fantasmi nel sé. Trauma e trattamento della dissociazione strutturale, Raffaello Cortina Editore, Milano
  • Van der Kolk B., 2015, Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche, Raffello Cortina Editore, Milano.


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