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Neuroscienze e psicologia

Neuroscienze e psicologia

di Zarina Zargar - 16/01/2024 Contenuto revisionato dalla redazione clinica
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Neuroscienze e psicologia

Chi lavora in ambito psicologico lo sa: le neuroscienze sono un importante insieme di discipline impegnate nella ricerca di una spiegazione sempre più approfondita del funzionamento cerebrale. Oggetti di studio sono il sistema nervoso centrale e quello periferico, la loro struttura e le rispettive funzioni, oltre che le loro interconnessioni.


Cervello e neuroscienze


Il cervello non è sempre stato considerato il centro di comando dell’intero organismo. Diverse fonti storiche sottolineano che, in tempi antecedenti alle più moderne scoperte scientifiche, si credeva fosse il cuore la sede della coscienza, della razionalità e dell’intelligenza.


DS stories - Pexels

Risale al pensiero medico e filosofico di Ippocrate (V sec. a.C.), considerato il padre della medicina scientifica, la prima ipotesi secondo cui il cervello sarebbe stato coinvolto non soltanto nella sensazione tramite occhi, orecchie e lingua, ma che fosse implicato anche in attività intellettive e decisionali. Successivamente a lui, anche altri studiosi di spicco, tra cui filosofi e medici, iniziarono a mettere in dubbio l’idea che fosse solamente il cuore a governare l’intero corpo umano.


Grazie allo sviluppo di strumenti sofisticati come il microscopio ottico, evolutosi poi in elettronico nel 1949, e alla nascita di tecniche specifiche come la procedura di colorazione del neurone ideata da Camillo Golgi alla fine dell’800, sono stati fatti innumerevoli passi avanti nella ricerca neuroscientifica. L’implementazione di strumenti e tecniche fruibili in ambito medico e neuroscientifico ha permesso di verificare quelle che per secoli sono state solo ipotesi e che ora sono prove dimostrabili e condivise.


Oggi sappiamo che il cervello è l’organo principale del sistema nervoso, che è incredibilmente complesso e che la sua attività è centrale per la funzione della mente e, più in generale, alla psiche, oggetto di lavoro di psicologi e psichiatri.


Per quanto le conoscenze in questo ambito siano state rivoluzionate e siano in costante crescita, grazie alla ricerca scientifica c’è ancora molto da scoprire. Le conoscenze neuroscientifiche, però, non sono solo fonte di stupore, ma offrono interessanti spunti di riflessione e applicazione in ambito clinico e interdisciplinare.


Le scoperte delle neuroscienze


Le neuroscienze uniscono informazioni provenienti da diverse branche scientifiche afferenti alla biologia e alla chimica, ma anche alla matematica, alla fisica, alla psicologia e alla linguistica. L’integrazione di un vasto numero di conoscenze diverse si è reso fondamentale per approfondire i più disparati aspetti del sistema nervoso, quali morfologia, funzione, cognizione, oltre che per poter ottenere una comprensione utile sia in condizioni di salute che di patologia.


I neuroni specchio


Una scoperta delle neuroscienze che ha destato notevole interesse tra gli scienziati, ma anche nella popolazione generale, è quella del 1922 relativa all’esistenza dei neuroni specchio.


All’interno del sistema nervoso esistono diversi tipi di neuroni, ognuno con una specializzazione differente e ben coordinata. I neuroni specchio sono una specifica classe di neuroni motori, o motoneuroni, denominati in questo modo proprio perché deputati al controllo diretto o indiretto dei muscoli e del loro movimento.


I motoneuroni permettono di scrivere al pc, di fare una passeggiata, di allenarsi e di svolgere tutte le attività quotidiane. Nella maggior parte dei casi rispondono alla nostra volontà e inviano dei segnali elettrici mirati, in grado di produrre la contrazione muscolare.


La scoperta dei neuroni specchio, però, aggiunge una conoscenza importante e in grado di aprire nuove porte: i motoneuroni di specifiche aree cerebrali non si attivano soltanto quando un individuo svolge un’azione finalizzata, come prendere in mano una matita, ma anche quando osserva la stessa azione compiuta da un altro soggetto.


Priscilla Du Preex - Unsplash

I neuroni specchio, quindi, sembrano essere in grado di mettere in connessione le persone tramite un’attivazione neuronale involontaria. È stato ipotizzato che tale attivazione sia alla base di capacità come l’empatia e di funzioni cognitive complesse come l’acquisizione del linguaggio.


Il sistema di neuroni specchio nell’essere umano è molto più articolato rispetto a quello delle scimmie, nelle quali è stato originariamente individuato. Questo rende difficile un’interpretazione univoca e definitiva della sua funzione. Certo è, però, che fornisce alle persone la possibilità di comprendere le azioni altrui e pone le basi per l’apprendimento tramite imitazione e simulazione del comportamento dell’altro.


La plasticità neurale


La scoperta della plasticità neurale è antecedente a quella dei neuroni specchio, ma assolutamente degna di nota e di grandissima portata, oltre che ricca di applicazioni attuali.


In ambito psicologico, il termine “plasticità” è stato utilizzato da diversi studiosi in riferimento alla capacità del cervello di formare nuove connessioni tra neuroni in seguito all’esperienza. Soltanto intorno agli anni ‘60, però, l’esistenza della plasticità neurale è stata dimostrata in modo sperimentale e compresa conseguentemente dal punto di vista neuroscientifico.


Le connessioni neuronali all’interno del cervello sono in grado di definire pensieri, ragionamenti e aspetti della personalità. Tali connessioni tra un neurone e l’altro si rafforzano quando vengono attraversate da un impulso elettrico nervoso, quindi quando vengono utilizzate: possono consolidarsi se utilizzate ripetutamente, così come possono cadere in disuso ed essere messe da parte in favore di connessioni nuove e più utili per la persona.


Ciò significa che il cervello ha la capacità di cambiare, modificarsi e adattarsi alterando la propria struttura e funzione in risposta agli stimoli a cui viene sottoposto, con lo scopo di perseguire un equilibrio più proficuo per l’intero organismo. Questo può avvenire sia in condizioni di salute che in seguito a lesioni traumatiche cerebrali o malattie cerebrali degenerative.


Neuroscienze e psicoterapia: un'integrazione possibile?


Le neuroscienze offrono numerosissimi ambiti di applicazione, tra cui certamente figura la psicoterapia. Già nel 1997 lo psicoanalista Arnold Modell riteneva che:


l’unificazione di idee derivanti dalla neurobiologia e dalla psicoanalisi possa aiutarci a chiarire una gamma molto ampia e varia di problemi che vanno dai ricordi traumatici alla coazione a ripetere, dalla teoria psicoanalitica dell’istinto al concetto di Sé

Essendo la psicologia una scienza, non può che fare riferimento alle scoperte scientifiche più recenti e aggiornate. La psicoterapia, a sua volta, basa i propri interventi sulla conoscenza attuale del funzionamento cerebrale e sull’efficacia dimostrata degli interventi proposti.


Neuroscienze e psicoterapia sono dunque in inevitabile connessione e diventa fondamentale un dialogo costante tra le due discipline riguardo topic come memoria, attività onirica, emozioni, percezione, cognizione, coscienza.


Le ricerche in entrambe le branche concorrono per il raggiungimento di due obiettivi comuni: una migliore conoscenza della persona in stato di salute e una migliore presa in carico della persona in stato di patologia. Le neuroscienze potrebbero permettere la validazione di modelli e prassi psicoterapeutiche e, al contempo, contribuire a delineare nuove linee di intervento ispirate alle scoperte evidence-based delle aree di studio neuroscienze, quali neurofisiologia, neuroimaging e genetica.


La psicoterapia può modificare il cervello?


È stato dimostrato che la psicoterapia porta a vere e proprie modificazioni delle strutture cerebrali. Durante la terapia si può lavorare in modo da sostituire i pensieri disadattivi con quelli più adattivi passando attraverso l’emozione, l’osservazione e il dialogo. Si può andare a lavorare in sinergia alla capacità del cervello di auto-modificarsi, aiutandolo nel processo di adattamento all’ambiente e alle sfide della vita.


L’individuazione dei neuroni specchio potrebbe avere interessanti risvolti per la pratica psicoterapeutica, correlando per esempio meccanismi come l’introiezione e la proiezione al rispecchiamento, che permetterebbe di riprodurre dentro un individuo uno stato simile a quello del caregiver, al modello di specchiamento dei comportamenti e degli stati psicologici ed emotivi degli altri.


Tutti gli individui possono internalizzare, assimilare, incorporare lo stato di una persona con una capacità di sintonizzazione alla cui base ci sono i neuroni specchio, nonostante sussistano differenze cui concorrono non solo caratteristiche individuali, ma anche variabili ambientali.


Milad Fakurian - Unsplash

Il neuroscienziato Vittorio Gallese, partendo dal presupposto che un rispecchiamento possa essere efficace se genera risposte congruenti o sintoniche con gli stati mentali altrui, ha supposto che rispecchiamenti inadeguati possano essere correlati a deficit di mentalizzazione che impattano in età adulta, come ad esempio il disturbo di personalità borderline.


Questi deficit nel sistema dei neuroni specchio - non soltanto in quelli di quadri psicopatologici, ma anche quelli di persone “sane” - possono essere riparati mediante tecniche psicoterapeutiche come il Mentalization-Based Treatment (MBT). Perni di questa metodologia sono l’empatia del terapeuta e la capacità riflessiva del paziente, il quale può scoprire se stesso nella mente dell’altro attraverso le risposte empatiche del terapeuta, che invitano il paziente a sperimentare nuove possibilità nel leggere le sue esperienze.


Il cambiamento nel paziente si realizzerà nel momento in cui lo scarto di divergenza tra lo stato originario e quello internalizzato dal rispecchiamento del terapeuta è piccolo abbastanza da non creare dissonanze nel costrutto identitario del paziente. 


La plasticità neurale e gli effetti della psicoterapia


La psicoterapia risulta in grado di apportare cambiamenti epigenetici ai circuiti cerebrali, migliorando sia l’attività che il processamento delle informazioni da parte dei neuroni, proprio come fanno i farmaci.


Ragionamenti e pensieri affrontati durante la psicoterapia possono andare ad alterare in modo favorevole gli stessi circuiti cerebrali implicati nell’esordio e nel mantenimento dei vari disturbi mentali, migliorando l’efficienza dell’elaborazione delle informazioni e quindi riuscendo ad alleviare i sintomi.


Infatti, sembra proprio che la psicoterapia riesca ad agire in modo significativo sul metabolismo di aree e circuiti cerebrali, in alcuni casi in maniera simile al trattamento farmacologico, in altri intervenendo su aree e circuiti specifici e differenti.


L'uso del neuroimaging nella ricerca sull'efficacia della psicoterapia


Le recenti innovazioni tecniche nel campo del neuroimaging (fMRI, PET, SPECT) hanno reso possibile studiare gli effetti biologici degli interventi psicoterapeutici e l’efficacia delle pratiche terapeutiche più diffuse, mostrando visivamente gli effettivi cambiamenti nel cervello umano vivente, misurando le variazioni nel flusso sanguigno cerebrale, nel metabolismo e anche a livello molecolare. L'avvento del neuroimaging funzionale ha permesso infatti di utilizzare tecnologie come la TC a emissione di fotone singolo (SPECT), la tomografia a emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale.


In ricerche su pazienti ai quali è stato diagnosticato disturbo ossessivo-compulsivo si è evinto un incremento metabolico nel nucleo caudato destro, a differenza dei pazienti con disturbo depressivo maggiore nei quali si riscontra una riduzione nell’attività della corteccia pre-frontale. A seguito di psicoterapia con questi pazienti, le irregolarità metaboliche evinte in questi disturbi sono nettamente ridotte. 


Anche se gli studi sugli effetti neurobiologici della psicoterapia dinamica sono in numero inferiore a causa della lunghezza media dei trattamenti, da recenti ricerche di Heimo Viinamaki su pazienti con diagnosi di disturbo di personalità borderline o di depressione, si è evinto che tale terapia permette di stabilizzare l’assorbimento di serotonina nell’area prefrontale e nel talamo, senza l’ausilio di psicofarmaci


Cottonbro studio - Pexels

Recenti studi di Arthur L. Brody, professore di Psichiatria e Scienze Comportamentali alla UCLA, hanno messo a confronto i risultati ottenuti dalla farmacoterapia e dalla psicoterapia interpersonale in pazienti affetti da depressione maggiore, rilevando che prima delle terapie si evidenzia un aumento metabolico nella corteccia prefrontale, nel talamo e nel nucleo caudato, mentre a seguito di esse c’è stata una riduzione nel metabolismo di quelle aree che si accompagna al miglioramento dei sintomi.


Il progresso scientifico porta con sé innumerevoli cambiamenti, nuove idee, nuove modalità di gestire situazioni già conosciute e non. Al fine di migliorare la propria professionalità e supportare al meglio il paziente, è necessario per psicologi e psicoterapeuti rimanere costantemente aggiornati sulle nuove scoperte neuroscientifiche e sulle nuove teorizzazioni elaborate, in grado di contribuire anche nelle situazioni più critiche e complesse.


È lecito chiedersi se un giorno sarà possibile lo scenario ipotizzato da Etkin nel quale i pazienti potrebbero essere indirizzati alla psicoterapia mediante una scansione cerebrale che permetta di monitorare anche i progressi.


Altrettanto lecito interrogarsi anche sugli effetti che questo tipo di ipotesi potrebbero avere per la clinica. Se da un lato hanno il pregio di vedere corpo e psiche come un’unica mente, dall’altro un rischio possibile è inquadrare la pratica terapeutica in un’ottica più medicalizzata che intende la cura come guarigione e risoluzione di sintomi, anziché in una prospettiva psicologica che intende la cura come processo costante di conoscenza di sé, di coltivazione del proprio benessere psicofisico, di connessione e di relazione. 


BIBLIOGRAFIA



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