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La gravidanza della terapeuta: sfide, opportunità e suggerimenti pratici

La gravidanza della terapeuta: sfide, opportunità e suggerimenti pratici

di Noemi Amato - 27/05/2024 Contenuto revisionato dalla redazione clinica
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La gravidanza della terapeuta: sfide, opportunità e suggerimenti pratici

La gravidanza di una terapeuta rappresenta un momento di trasformazione e transizione significativo non solo nella sua vita personale e familiare, ma anche sul piano professionale, nel rapporto con i pazienti e nella gestione della pratica clinica, poiché introduce una serie di dinamiche, relazionali ed emozionali, che entrano nel rapporto terapeutico.


L’obiettivo di questo articolo è, quindi, esaminare attentamente le sfide e le opportunità che questo evento comporta, fornendo al contempo suggerimenti pratici per garantire al meglio la sospensione della terapia online e preservare il benessere di tutti gli attori coinvolti.


La self-disclosure nella relazione terapeutica


Sebbene negli anni ‘50 abbia preso spazio il mito della neutralità, secondo cui bisogna prestare attenzione a non trasmettere nulla di sé, sappiamo che, come recita il primo assioma in Pragmatica della comunicazione umana, “Non si può non comunicare” (Watzlawick et al., 1967). 


Ogni nostro comportamento, silenzio compreso, ha un valore comunicativo. Dunque, intenzionalmente o inconsapevolmente, riveliamo costantemente qualcosa di noi (Moses & McGarty, 1995), a partire dagli arredi dello studio che decidiamo di mostrare, anche in video. Oltretutto, i nostri pazienti sono degli ottimi osservatori: fanno caso a quello che facciamo, al modo in cui parliamo, a come ci vestiamo. Per tale ragione, essere completamente invisibili è impossibile.


Antoni Shkraba - Pexels

Sebbene i diversi aspetti dell’identità soggettiva della psicoterapeuta siano elementi evidenti nel contesto della terapia, la gravidanza li rende ancora più visibili (Albertini, 2022). Essa rientra, nel setting clinico, in quei disclosure che non possono essere nascosti e che necessitano, quindi, di essere chiariti e gestiti nella relazione con il paziente (Sachs, 1986). 


Ad avvalorare queste premesse circa l’impossibilità di una neutralità terapeutica, sono le trasformazioni corporee che avvengono nella terapeuta nel corso dei nove mesi. Per quanto questi cambiamenti, rispetto al setting in presenza, nell’online siano meno evidenti, dobbiamo riconoscere che non sono del tutto impercettibili: basti pensare al viso più radioso e alla maggiore luminosità della pelle. 


A partire da ciò, possiamo fare una prima considerazione circa l’opportunità che questi cambiamenti ci offrono nel portare in stanza di terapia una tematica molto importante, quella dell’immagine corporea. Ecco che la gravidanza diviene uno stimolo di apertura e riflessione su temi che, talvolta, si è riluttanti a trattare, come l’aumento del peso corporeo, spesso considerato un tabù a causa dei modelli culturali che vedono la magrezza come sinonimo di bellezza (Sachs, 1986). 


Man mano che la pancia cresce, il corpo prende ampio spazio, accendendo delle fantasie sulla vita relazionale e sessuale della psicoterapeuta (Rubin, 1980; Sachs, 1986) e consentendo una maggiore e più aperta condivisione del materiale sessuale da parte del paziente (Fallon & Brabender, 2003).


Alla luce di ciò, piuttosto che chiederci come rendere più invisibile la gravidanza, è utile accoglierla come un’occasione in cui paziente e terapeuta possono incontrarsi in un modo più semplice e autentico, e riflettere, quindi, su una migliore gestione del suo disvelamento che genera nella professionista una serie di domande, fantasie e timori.


Comunicare la gravidanza: le domande della terapeuta


La gravidanza della terapeuta è un’invasione unica ed evocativa dello spazio terapeutico (Wedderkopp, 1990) che porta con sé la questione di quando, se e come darne comunicazione al paziente. Sappiamo che nel setting in presenza la pancia, a un certo punto, diventa ben visibile, mentre nell’online non è detto che lo sia. Per tale ragione, in quest’ultimo caso, è importante rivelare il proprio stato perché, prima o poi, la separazione sarà inevitabile


Chiaramente, la scelta di lasciar scoprire o darne comunicazione veicola messaggi differenti, e per quanto sia connessa al proprio orientamento teorico, dobbiamo considerare che a un certo punto la disclosure è inevitabile (Turkel, 1993) ma anche fondamentale per evitare che relazione paziente-terapeuta riproponga quella dinamica relazionale genitore-figlio caratterizzata da segreti e non detti (Balsam, 1980; Barbanel, 1980).


Non c’è un momento giusto per comunicarlo, ciò che è importante è tenere sempre a mente il paziente, e che i tempi e le modalità con cui ne diamo comunicazione influenzano in modo significativo quella specifica relazione terapeutica.


Secondo la letteratura, è consigliabile darne notizia fra il terzo e il quinto mese; è bene non andare oltre il sesto per elaborare, in un tempo e in uno spazio congruo, i vissuti abbandonici che il congedo di maternità può suscitare (Dyson & King, 2008). Inoltre, è importante condividere lo stato di maternità nella prima metà della seduta così da accogliere le più varie reazioni del paziente.


Freestocks.org - Pexels

La scelta e la gestione delle pause in terapia, essendo la nostra una libera professione, è personale e, certamente, va ponderata in base al singolo paziente e alle condizioni, psichiche e fisiche, in cui si trova la terapeuta, considerando che la gravidanza è una fase delicata nella vita di ogni persona.


Generalmente, lavorando in un contesto protetto, è più facile che si propenda per una sospensione tardiva; tuttavia, è importante sottolineare e ribadire, che questa decisione deve tenere conto del proprio stato di salute. Ricordiamoci sempre che per prenderci cura dell’altro, è necessario in primis dare cura a noi stesse!


Nonostante la preoccupazione di perdere i pazienti, è bene riconoscere che solitamente sanno aspettare, soprattutto se la terapia è in corso da tempo e la relazione terapeutica è ben salda. Nei casi di maggiore necessità, si può scegliere di dare disponibilità a essere contattate. Tuttavia, laddove la terapeuta sentisse di non avere le risorse psico-fisiche per potere offrire aiuto, l’invio diventerebbe necessario, utile e protettivo per tutti i soggetti coinvolti.


La ripresa dell’attività professionale è opportuno che avvenga con una certa gradualità così da garantire alla terapeuta di trovare un nuovo e sano equilibrio fra la condizione lavorativa e quella di maternità. La comunicazione della nascita del proprio figlio, infine, non segue una regola specifica: si può decidere di darne notizia o di aspettare che venga chiesta. L’importante è, anche in questo caso, muoversi in base a ciò che è bene per il nostro paziente.


Le reazioni dei pazienti alla notizia della gravidanza


Le risposte dei pazienti alla comunicazione della gravidanza della terapeuta possono essere complesse e coinvolgere sentimenti e pensieri multipli e contrastanti (Katzman, 1993). Alcuni potrebbero rispondere alla notizia con calore e preoccupazioni genuini (Guy et al., 1988). Altri, invece, potrebbero sentirsi abbandonati o minacciati dalla prospettiva della sospensione della terapia. Diventa importante accogliere ed esplorare apertamente queste reazioni, offrendo sostegno e chiarezza riguardo alla continuità del percorso (Albertini, 2022). 


È bene, quindi, riconoscere l’influenza che la gravidanza esercita sulla terapia, portando con sé una serie di tematiche, transferali e controtransferali, nello spazio terapeutico; per tale ragione, sarà necessario negoziare e ridefinire nuovi modi di stare in interazione, a partire dall’osservazione di tali reazioni.


Sebbene le risposte dei pazienti siano varie ed esprimano il loro mondo affettivo e personale (Turkel, 1993), possiamo, nell’ampio spettro delle reazioni possibili, rintracciare dei temi comuni (Fenster et al., 1986). Ritardare o saltare le sedute, cambiare il terapeuta, manifestare difficoltà economiche, o persino chiedere di terminare la terapia, sono alcuni dei comportamenti di acting out con cui i pazienti possono reagire alla gravidanza della terapeuta (Berman, 1975; Underwood & Underwood, 1976; Bassen, 1988; Katzman, 1993; Napoli, 1999).


La maternità, come potente stimolo transferale, può catalizzare o intensificare ricordi significativi della storia del paziente e riattivare conflitti infantili, ancora irrisolti, relativi alla relazione materna. Si tratta probabilmente di tematiche già trattate nel corso della terapia, ma che emergono in modo diverso, poiché i pazienti vedono la terapeuta sotto una nuova luce (Albertini, 2022).


Spesso, la presenza del feto viene esperita come intrusiva (Fenster et al., 1986): seppure come fantasia più che come reale presenza, il terzo entra nella relazione terapeutica, sollecitando nel paziente la preoccupazione di essere ascoltato (Fuller, 1987), reazioni generali di rabbia, sentimenti di esclusione e privazione (Breen, 1977; Raphael-Leff, 1980).


La terapeuta in stato di gravidanza può essere oggetto di invidia, che può sfociare anche in aggressività, in quanto percepita da chi sente di avere poco o nulla, per esempio pazienti con precedenti aborti o problemi di infertilità, come “colei che ha tutto” (Fenster et al., 1986).


SHVETS production - Pexels

Un tema molto delicato riguarda la separazione che in alcuni, come sottolinea Sachs (1986), può essere vissuta come una forte ferita narcisistica, stimolando pensieri come “Non puoi farmi questo!”. In altri, può suscitare intensi sentimenti di abbandono, che vanno affrontati e gestiti adeguatamente, offrendo rassicurazione al paziente mediante una stima temporale del periodo di sospensione della terapia (Albertini, 2022).


La gravidanza della terapeuta può generare anche sentimenti di rabbia tanto per la minaccia di abbandono quanto per la rievocazione delle cure ricevute nell’infanzia (Underwood & Underwood, 1976). In taluni casi, per evitare di entrare in connessione con i sentimenti di perdita, i pazienti adottano la negazione (Rubin, 1980), che può essere anche espressione della riluttanza della terapeuta a portare il proprio bambino in stanza di terapia (Dyson & King, 2008). Queste emozioni possono manifestarsi attraverso agiti o comportamenti insoliti dei pazienti, che vanno sempre riconosciuti e trattati nel corso della terapia.


La gravidanza suscita inevitabilmente anche una serie di risposte controtransferali, per cui è importante chiederci e riflettere su cosa succede alla terapeuta in maternità.

 

Le risposte controtransferali della terapeuta


Le manifestazioni del controtransfert possono includere il rifiuto dell’impatto della gravidanza sulla relazione terapeutica: spesso, la psicoterapeuta si trova a sminuirlo o negarlo. La sua maggiore vulnerabilità può, inoltre, rendere difficile tollerare l’ostilità o l’aggressività del paziente, il che potrebbe portare a un’impasse terapeutica (Dyson & King, 2008).


In altri casi, può sperimentare la paura di deludere le aspettative di chi chiede aiuto, o un vissuto di colpa per aver dato priorità alla vita personale piuttosto che alla sofferenza dell’Altro (Baum, 2006). Il sentimento di colpa può parlare anche dell’eccessivo senso di responsabilità che sente verso i pazienti, o, ancora, della preoccupazione di avere più di loro, soprattutto se impossibilitati nell’avere un figlio (Grossman, 1990).


Tuttavia, è importante riconoscere la gravidanza come un’occasione di crescita nel consentire al paziente di fare i conti con la delusione che l’altro possa non essere fedele alle aspettative, e alla terapeuta di lavorare sulla fantasia narcisistica di essere “la professionista perfetta” (Fallon & Brabender, 2003; Browning, 1974) andando piuttosto incontro a un processo di umanizzazione.


Inoltre, la varietà e diversità di emozioni che entrano in gioco durante la maternità possono generare sentimenti di ambivalenza che prendono forma nella fatica a gestire in modo equilibrato la dimensione professionale e quella personale, oscillando fra il desiderio di non deludere e il bisogno di dare spazio alla propria condizione (Baum, 2006).


Amina Filkins - Pexels

Non è insolito che le maggiori richieste di attenzione dei pazienti possano far sorgere nella terapeuta una sensazione di risentimento; viceversa, potrebbe sentirsi infastidita dal sentirsi oggetto di un’eccessiva preoccupazione dei pazienti (Dyson & King, 2008), sperimentando la sensazione di un ribaltamento di ruolo in cui è il paziente a prendersi cura della terapeuta (Grossman, 1990).


È inoltre importante riconoscere che la tematica della separazione coinvolge anche la professionista: la gravidanza diventa un’occasione per approfondire il proprio grado di differenziazione e per riconoscere gli aspetti simbiotici di alcune terapie e, di conseguenza, per lavorare sulla capacità di separarsi.


Nel corso dei nove mesi, accresce il senso di stanchezza e affaticamento, i tempi diventano imprevedibili, e si può andare incontro alla sensazione di perdere il controllo sul proprio corpo: non è infrequente che si neghi di aver bisogno di un maggiore riposo (Albertini, 2022). Per tale ragione, è importante prestare molta attenzione alle proprie condizioni fisiche, psichiche e alle scelte che si fanno perché inevitabilmente arrivano al paziente.


Prendersi cura di sé: un atto di responsabilità


Come abbiamo visto, un aspetto importante da attenzionare riguarda il riconoscimento dell’impatto che la gravidanza ha sulla terapia (Fallon & Brabender, 2003). Bisogna, piuttosto, prestare attenzione ai messaggi che diamo ai nostri pazienti in quanto il modo in cui gestiamo la gravidanza, e in generale la nostra salute, rivela come ci prendiamo cura di noi (Albertini, 2022).


Decidere, per esempio, di lavorare anche in uno stato di profonda stanchezza fa passare, a livello implicito, la difficoltà nel dare soddisfazione ai propri bisogni. Quindi, prendersi cura di sé durante la gravidanza è un atto di responsabilità non solo verso sé stesse e il nascituro, ma anche verso i pazienti.


Pause, lunghe assenze e una gestione oculata del carico di lavoro sono fondamentali per mantenere un alto standard di cura e prevenire l'affaticamento professionale. È importante però - come sopra esposto - comunicarle apertamente ai pazienti, trasmettendo fiducia nella continuità del percorso. Nonostante le possibili criticità, una buona gestione della self-disclosure e del setting terapeutico possono produrre significativi miglioramenti nel paziente, rafforzare la relazione terapeutica e rappresentare un'opportunità di crescita per tutti i soggetti coinvolti.


BIBLIOGRAFIA


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